Es mostren els missatges amb l'etiqueta de comentaris catalogna. Mostrar tots els missatges
Es mostren els missatges amb l'etiqueta de comentaris catalogna. Mostrar tots els missatges

dilluns, 17 de febrer del 2014

Via da Madrid, il sogno catalano «Non per soldi, ma per dignità»

LUIGI IPPOLITO, CORRIERE DELLA SERA | 17 FEBBRAIO 2014
Verso il referendum indipendentista osteggiato dalla Spagna
BARCELLONA — Si arriva sulla Plaça Catalunya, centro pulsante di Barcellona, magari scendendo attraverso le architetture moderniste del Passeig de Gracia; o magari risalendo dai profumi del mare, su lungo la Rambla. E una volta arrivati, si è colti da un pensiero: questa città deve essere la capitale di qualcosa .
Un qualcosa che potrebbe vedere luce già alla fine di quest’anno: una nuova nazione in Europa, lo Stato indipendente di Catalogna. Perché il 9 novembre dovrebbe svolgersi il referendum sull’autodeterminazione della più ricca regione di Spagna, con i sondaggi che rilevano una costante maggioranza a favore della secessione da Madrid.
«La Catalogna rappresenta da sola il 30% delle intere esportazioni spagnole — fa notare l’economista Miquel Puig, già responsabile della politica industriale del governo di Barcellona —. Ormai esportiamo più verso l’Europa che non verso la Spagna: siamo al livello dei Paesi nordici o dell’Austria. Ma il 45% delle tasse versate in Catalogna allo Stato centrale non rientra da noi: alla fine ben l’8% del nostro Pil viene trasferito a Madrid».
Motivi economici dunque? Un altro caso di egoismo dei ricchi, sordi alle ragioni della solidarietà? I catalani quasi si offendono all’idea. «Non è solo questione di soldi — spiega il politologo Carles Boix, che insegna a Princeton, negli Usa —. La questione fiscale non è determinante nell’opinione pubblica. La richiesta di autonomia affonda le sue radici storiche fin nel Regno di Aragona, che si unì al Regno di Castiglia per formare la Spagna moderna».
Che si vada a pranzo con esponenti della società civile o a cena con giornalisti locali, tutti si accalorano a spiegare che il movente è culturale, linguistico, che è qualcosa che ha a che fare con l’identità. E tutti concordano che il punto si svolta è stata la decisione della Corte costituzionale spagnola, nel 2006, di respingere il nuovo statuto di autonomia della Catalogna. «È da quel momento — sottolinea Boix — che presero il via in città e villaggi i referendum locali auto-organizzati per chiedere l’autodeterminazione. Non è un processo partito dalle élite ma dalla società civile, culminato nelle grandi manifestazioni del settembre 2012 e 2013. Lo stesso presidente Artur Mas si è via via dovuto spostare dalla richiesta di riequilibrio fiscale con Madrid all’indipendenza».
Sullo sfondo di tutto questo, il grande timore è tuttavia il posto che una Catalogna indipendente potrebbe, o non potrebbe, occupare in Europa. «Madrid continua a minacciarci — sostiene Roger Albinyana, segretario agli Esteri del governo regionale —. Dice che finiremo isolati a livello internazionale. Che saremo espulsi dalla Ue, dalla Nato, dall’Onu, che finiremo fuori dall’euro. Ma è interesse dell’Europa tenerci dentro: il 50% delle multinazionali tedesche in Spagna, per esempio, ha sede in Catalogna. È ipotizzabile un compromesso: fuori dalla Ue, in attesa di un nuovo processo di adesione, ma dentro il mercato comune». Il più spaventato sembra essere il grande business. La Caixa, la maggiore banca di Barcellona (e terza in Spagna), si tiene alla larga dai fermenti secessionisti. I piccoli e medi imprenditori, tessuto connettivo della società e dell’economia catalana, sono più possibilisti, ma intanto preparano piani di emergenza per far fronte a ricadute economiche e commerciali.
Ma queste sono appena evocate. Le parole che ricorrono nelle conversazioni con i barcellonesi sono «rispetto» e «dignità». I catalani si sentono offesi: offesi da un potere centrale che, a loro dire, attenta all’autonomia linguistica, ignora le loro specificità, preso com’è da un impulso accentratore che si è radicalizzato con l’ascesa al potere a Madrid dei Popolari di Mariano Rajoy. Si affaccia talvolta la rivendicazione di una diversità catalana, fatta di apertura al mondo, ai commerci, agli ideali laici e repubblicani, a fronte di una Spagna cattolico-conservatrice, rurale, monarchica. Ma non si tratta di una deriva identitaria di sapore nazional-populista, come ne fioriscono in Europa di fronte ai venti della globalizzazione. Qui siamo lontani dalla retorica del sangue e suolo o dalla riesumazione di riti arcaici sulla purezza delle origini.
Per convincersene basta far visita a Oriol Junqueras, il leader della Sinistra Repubblicana, il partito indipendentista che sostiene dall’esterno il governo centrista di Convergenza e Unione del presidente Mas. Gli opinionisti concordano nel predire che in caso di nuove elezioni la Sinistra Repubblicana trionferebbe e Junqueras diventerebbe il prossimo presidente. «L’identità catalana è legata alla democrazia e alle istituzioni — argomenta —. È inclusiva, non esclusiva: qui tantissimi cittadini hanno origini, in tutto o in parte, fuori dalla Catalogna: ma è catalano chiunque condivida il nostro progetto democratico».
E il senso della parabola sta nella confidenza familiare che si lascia sfuggire Oriol Pujol, figlio del mitico Jordi, patriarca della Catalogna dal 1980 al 2003: «Mio padre ha creduto per tutta la sua vita alla possibilità di un accordo con Madrid. Ma ora che ha superato gli 80 anni mi ha confessato: “Avevo sbagliato tutto”».

dissabte, 18 de gener del 2014

Lettera di Artur Mas al giornale La Repubblica

La Repubblica, 18-01-2014, pag. 25

SPIRITO CATALANO
Artur Mas
Caro direttore, la Catalogna è notizia. Quella che secondo il nostro grande scrittore Josep Pla, fu definita la “regione più occidentale d’Italia” attira l’attenzione perché malgrado immensi problemi è all’avanguardia in modernità, innovazione, benessere. Lo è anche perché dal 2010 ha intrapreso una strada: chiedere ai suoi cittadini, per la prima volta, se vogliono diventare uno stato d’Europa. Un processo democratico, pacifico, e che non vuole escludere nessuno.
La proposta di uno stat catalano è tutto il contrario del vittimismo. Ciò che oggi da energia e fa crescere l’entusiasmo per la causa catalana è precisamente il suo atteggiamento costruttivo: non si vuole attaccare la Spagna, vogliamo semplicemente votare per decidere il nostro futuro. Il movimento per la sovranità nazionale catalana non ha nulla contro i cittadini spagnoli; il conflitto è con i poteri dello stato spagnolo, perché contro  la società catalana ci sono, oltre alla mancanza di riconoscimento, anche un trattamento ingiusto e lesivo. Siamo una nazione d’Europa, siamo europei,  vogliamo continuare ad esserlo e vogliamo esprimerlo votando.
In nessun caso il movimento per la sovranità catalana è espressione di un nazionalismo etnico, vittimista e antispagnolo. Il catalanismo è sempre stato civile, un elemento di modernizzazione e apertura in una Spagna tradizionalmente chiusa. Durante il franchismo, il partito comunista catalano, il PSUC, sulle orme di Berlinguer, fu determinante nel vincolare alla tradizione catalana il movimento operaio e l’immigrazione proveniente dalle regioni più povere della Spagna.
Il presidente Jordi Pujol, fondatore del mio partito, Convergència Democràtica, imprigionato durante il franchismo, è l’autore di quella che ancor oggi è la definizione più diffusa: “È catalano chi vive, lavora in Catalogna e lo vuol essere”. Alla catena umana che l’11 settembre scorso riunì 2 milioni di persone si ascoltavano molte lingue: catalano, spagnolo ma anche arabo e romeno. La Catalogna è una terra in cui ciò che conta veramente non è la propria origine ma il destino che si cerca.
I governi guidati dal mio partito hanno deciso di dare la copertura sanitaria pubblica a tutti gli immigrati. Il mio predecessore, José Montilla, è nato in Andalusia, al sud della Spagna. Come ricorda il professor Francesc-Marc Alvaro, gli esperti internazionali più accreditati situano il caso catalano tra i movimenti nazionali basati sullo “ius soli”, molto diversi e lontani dai nazionalismi etnici, escludenti e aggressivi, basati sullo “ius sanguinis”.
L’Unione europea ha una lunga tradizione come terra d’accoglienza delle persone che sono arrivate in cerca di un futuro, ma bisogna migliorare le politiche di collaborazione tra gli stati che la compongono. Ci vogliono inoltre politiche sociali di ambito europeo che tengano ben presenti i diritti, la dignità e il rispetto che merita ogni essere umano, indipendentemente dalle sue origini, razza o religione.
Termino con le parole di Fermí Santamaría, sindaco di un piccolo paese catalano e del mio stesso partito; è nato a Cadice in Andalusia da dove, diciottenne, se n’è andato per arrivare in Catalogna, come tanti altri, a cercare un futuro migliore. Racconta sempre le parole che sua madre gli disse prima di partire: “Non dimenticare mai la terra che ti ha visto nascere, ma lavora e lotta per quella terra che ti vedrà crescere”. Questo è la Catalogna.

L’autore è presidente della Catalogna


Link del giornale La Repubblica con l'articolo pubblicato 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/01/18/spirito-catalano.html

Link della presidenza della Generalitat con l'originale in catalano
www.president.cat/pres_gov/AppJava/president/notespremsa/notapremsa-242170.html?mode=static








dimecres, 15 de gener del 2014

Roberto Maroni non è il benvenuto (Vilaweb)

Roberto Maroni, presidente della Lombardia e leader della xenofoba Lega Nord, arriva domani in Catalogna con un obiettivo chiaro: approfittare della risonanza internazionale del processo indipendentista catalano. Dato il suo ruolo istituzionale di presidente della regione Lombardia è impossibile evitare la visita, però proprio per questo abbiamo, tutti, la responsabilità di chiarire che questo personaggio non è il benvenuto e anche che il movimento civico e politico catalano non ha niente a che vedere con ciò che egli rappresenta.

La Lega Nord è un movimento populista e xenofobo che usa un’identità inventata, quella della Padania, per raccogliere adesioni popolari ad un movimento contrario al sentimento pluralista, aperto a tutti e democratico che è la base dell’idea di sovranità catalana.
Qui non chiediamo a nessuno da dove viene, sennò che cosa vuol essere. Qui crediamo che la società sia più ricca quando è più composita. Qui lottiamo per il progetto di uno stato al servizio di tutti, senza distinzioni ne’ privilegi. La nazione catalana ha un grande passato ma oggi è il futuro che ci interessa di più, e in questo futuro c’è posto per tutti senza distinzione d’origine, di lingua, di religione, di cultura. È sempre stato così e sempre lo sarà.


Quando, nel 2009, cominciarono i referendum popolari per l’indipendenza, il movimento per la sovranità nazionale catalana vide subito chiaramente che tutti dovevano avere diritto di voto, inclusi naturalmente anche gli immigranti arrivati più di recente. Non si può costruire un paese lasciando ai margini la gente che già ci vive. E questa non era una decisione di circostanza ma aveva radici profonde nella tradizione del catalanismo, che il presidente Pujol aveva affermato con la frase secondo la quale “è catalano chi vive e lavora in Catalogna”.

È solo in mala fede, quindi, che si può mescolare il nostro movimento con quest’altro, la Lega Nord, che proclama come prassi politica la differenza fra i cittadini del suo stesso paese
E non solo: credo che siamo tutti d’accordo a lavorare dalla Catalogna perché l’Europa non cada mai nel buco nero dove quelli della Lega vorrebbero ficcarci tutti.


Editorial de Vicent Partal Roberto Maroni no és benvingut Vilaweb del 15.01.2014 
  

divendres, 1 de novembre del 2013

Traduzione integrale di: Catalogna, una nazione fatta di lingua, cultura e convivenza

Nell'articolo precedente abbiamo citato parte dell'editoriale del Centre d'Estudis Jordi Pujol del 23 ottobre 2013, particolarmente significativa rispetto ai nostri valori. 
Visto l'interesse dimostrato dai nostri lettori, abbiamo tradotto tutto l'articolo.

L’obiettivo di questo editoriale non è ripercorrere l’evoluzione che ha portato dalle posizioni degli anni Sessanta e Settanta, e anche Ottanta e Novanta – dopo la conquista di democrazia e autonomia – a quelle odierne. Prima la meta cui si guardava era la costruzione di uno Stato spagnolo democratico, socialmente avanzato e parte della dimensione europea. Sul piano economico e sociale era necessario compiere uno sforzo di solidarietà, anche territoriale. Infine – aspetto non secondario, anzi condizione imprescindibile per il buon esito del progetto – si doveva offrire una struttura adeguata al pluralismo che giustizia ed efficienza imponevano ad uno Stato plurinazionale (ovvero costituito da diverse nazionalità, per dirlo con le parole della Costituzione).
Per il raggiungimento di questi obiettivi risultava imprescindibile un solido impegno tra tutte le componenti dello Stato, tra tutti i settori ideologici e tra le diverse realtà nazionali (o nazionalità) che lo compongono tra cui, ovviamente, la Catalogna.
Questo disegno e il relativo impegno collettivo hanno retto, approssimativamente, per venticinque anni, tra ostacoli e tensioni. Nell’insieme, però, ci si muoveva tutti nella medesima direzione. Con risultati positivi per tutto lo Stato sul piano politico, sociale ed economico. Progredendo sul terreno della solidarietà e pervenendo, allo stesso tempo, ad un maggiore riconoscimento delle differenze, tra cui quello della Catalogna, di particolare peso e significato.
Oggi non è più così: si parla di ponti tagliati e di scontro di treni. Le prospettive sono molto preoccupanti e si ha la sensazione di un processo di accelerazione verso questo scontro.
Ciò spiega perché stiano emergendo proposte definite come “terza via”. Proposte che però, in questo momento, sembrano difficilmente percorribili. Da parte catalana, infatti, ci sono molto scetticismo e poca fiducia. Da parte dello Stato, fatto ancor più grave, si registra un totale rifiuto del dialogo. Se oggi parliamo di tali soluzioni, dunque, non è per discutere delle loro possibilità di successo ma soltanto per sottolineare la buona volontà, il desiderio di trovare punti di convergenza o la semplice preoccupazione delle persone ed entità che le hanno portate avanti. Persone ed entità che però mostrano anche una visione parziale delle rivendicazioni catalane e delle loro radici profonde, soprattutto rispetto a un tema che la Catalogna considera essenziale: la lingua.
Tra coloro che parlano di terza via – con l’eccezione di Duran i Lleida tra i catalani e senza eccezione alcuna fuori della Catalogna – nessuno tiene conto del fatto che la sentenza del Tribunale costituzionale e la legge Wert (che segna un arretramento notevole del catalano nella scuola) rappresentano ostacoli insormontabili per recuperare un progetto condiviso di Stato e società.
Già negli anni Novanta si corsero rischi analoghi a quelli che registriamo oggi. Riportiamo di seguito alcuni scritti del 2007 che lo ricordano:
       «Per quanto concerne la lingua catalana, un ricorso contro l’immersione linguistica presentato al Tribunale costituzionale si è risolto positivamente nel 1994. Se in quell’occasione la sentenza fosse stata diversa, si sarebbe messo in pericolo uno dei pilastri della nostra politica di difesa del catalano e di integrazione degli immigrati. Occorre ricordare che in quella fase, in Spagna, non era in atto una campagna contro il catalano come quella attuale, o almeno aveva una minore intensità; e che il Tribunale costituzionale, presieduto da Francisco Tomás y Valiente, godeva di un prestigio, di una libertà e di una sensibilità che oggi non ha».
       «E’ opportuno un riferimento all’atteggiamento e alla sensibilità assunti in quella fase dal Tribunale costituzionale e dal suo presidente in relazione al catalano. Tomás y Valiente, che allora ricopriva la carica, affermava quanto segue: “Sono consapevole che la questione di maggior rilievo che oggi il Tribunale ha tra le mani concerne la lingua della Catalogna”. E aggiungeva: “Qualcuno lo nega e considera moltò più preoccupante il ricorso sulla espropriazione da parte del Governo statale delle imprese di Rumasa. Io rispondo che, sempre e dovunque, può succedere che un giudice costituzionale si pronunci a favore di una impresa e contro il Governo senza che accada niente. Diversamente, il catalano ha una fondamentale importanza non solo per la politica di ogni giorno ma anche per la struttura dello Stato e il concetto stesso di Spagna”».
Che differenza tra questa impostazione e la inconsistenza giuridica e la politicizzazione di bassa lega che hanno caratterizzato la vicenda del ricorso contro l’Estatut de Catalunya del 2006!
Il presidente Tomás y Valiente aveva ben chiaro che la questione della Catalogna assumeva - e assume tuttora - una valenza identitaria molto importante, legata ad una coscienza di Paese e di personalità collettiva propria, in relazione alle quali hanno un peso decisivo il sentimento e, ancora di più, il fatto culturale e la lingua. La nazione catalana non ha base etnica, e non la vuole nemmeno. La Catalogna è e vuole essere, invece, una nazione per lingua e cultura. E per capacità di convivenza.
La politica linguistica, culturale e sociale della Catalogna durante gli ultimi quaranta anni si è identificata in questi principi. A partire da formazioni politiche e ideologiche non sempre coincidenti, ma fondamentalmente d’accordo sugli argomenti di stato sociale, convivenza e lingua, con l’obiettivo che in Catalogna ci fosse il massimo possibile di coesione sociale
Lo Stato sociale può essere indebolito attraverso la perdita di competenze da parte della Generalitat e attraverso l’asfissia finanziaria. Anche per quanto riguarda la lingua vi può essere una legislazione che ne freni, in maniera determinante, l’insegnamento, l’uso e la capacità di essere un fattore d’integrazione già a partire dalla scuola. E’ quello a cui aspirano la legge Wert e una idea di Spagna, oggi particolarmente forte, a cui dà fastidio la piena affermazione della Catalogna come popolo e comunità di lingua e cultura. Questo non è tollerabile. Non è tollerabile che si ritenga sia giunto il momento, come si dice, di «dare un giro di vite» affinché «nel giro di due generazioni la questione della lingua e della autonomia risulti definitivamente chiusa». Di questo parlavamo nell’editoriale «Habéis perdido y no os necesitamos». 

La questione linguistica in generale e, più specificamente, quello della immersione – che, detto per inciso, non è mai stato un problema sociale e di convivenza in Catalogna, anzi al contrario – devono essere considerati di massima importanza. Perché la Catalogna non è né vuole essere una nazione etnica, ma vuole continuare a essere una nazione di lingua, cultura e convivenza.

dimarts, 29 d’octubre del 2013

Catalogna, una nazione fatta di lingua, cultura e convivenza


Testo tratto da l'editoriale del Centro Studi Jordi Pujol del 23 ottobre 2013



[...] La nazione catalana non ha base etnica, e non la vuole nemmeno. La Catalogna è, invece, una nazione per lingua e cultura. E per capacità di convivenza.
La politica linguistica, culturale e sociale della Catalogna durante gli ultimi quaranta anni si è identificata in questi principi. A partire da formazioni politiche e ideologiche non sempre coincidenti, ma fondamentalmente d’accordo sugli argomenti di stato sociale, convivenza e lingua, con l’obiettivo che in Catalogna ci fosse il massimo possibile di coesione sociale [...]



Jordi Pujol, presidente della Catalogna dal 1980 al 2003    (foto público.es)


dimarts, 1 d’octubre del 2013

La Lega Nord vista da Enric Juliana

Dall'articolo El caso de los catalanes di Enric Juliana - La Vanguardia 15-09-2013


[…] Alla Catalogna indipendentista è toccato un alleato più che mai scomodo nell’attuale contesto europeo. La Catalogna  è diventata il nuovo punto di riferimento della Lega Nord italiana, il movimento autonomista, dalle tinte populiste e xenofobe, che da più di vent’anni riveste un ruolo di primo piano nelle regioni settentrionali dell’Italia. Lo scorso 11 Settembre, i deputati della Lega si sono presentati al Parlamento di Montecitorio, a Roma, indossando delle magliette con la bandiera indipendentista catalana (estelada) […] 

Negli anni novanta, la Lega cercò di entrare in contatto con la politica catalana. Umberto Bossi si recò a Barcellona senza ottenere grandi risultati. Jordi Pujol rifiutò di riceverlo (Pujol conosceva troppo bene la storia italiana per andare a cacciarsi in questo ginepraio). 
Tuttavia, alcuni dirigenti di Esquerra Republicana (Sinistra Repubblicana), ai tempi in cui alla guida del partito c’era Àngel Colom, dimostrarono interesse per la Lega. Ci furono dei contatti. 

Il leader attuale dell’ERC, Oriol Jonqueras, conosce molto bene l’Italia, perché ha compiuto gli studi superiori nel Liceo Italiano di Barcellona. È improbabile che si lasci fotografare in compagnia di chi ha abbinato le rivendicazioni autonomiste a un discorso xenofobo intollerabile, e che negli ultimi mesi è arrivato al punto di chiamare “orango” la ministra dell’integrazione del governo Letta, Cécile Kyenge, nata nella Repubblica Democratica del Congo.
La Lega ha bisogno di indossare una maglietta catalana; la Via Catalana dovrebbe mantenere le distanze da Umberto Bossi e dimenticarsi delle civetterie dell’ERC.
La Padania è un’invenzione (l’Italia venne unificata nel 1860 dalla borghesia industriale del Nord). La Catalogna è una realtà storica della quale si parlava già trecento anni fa in tutte le cancellerie europee. 

Foto Alberto Gamazo da Jot Down Cultural Magazine
Trad. Sara Antoniazzi




dilluns, 30 de setembre del 2013

Padania nazione fittizia


Estratto dell'intrevista alla giornalista di politica internazionale Elena Marisol Brandolini, a cura di Alba Sidera, del quotidiano catalano El Punt-Avui del 23-09-2013



AS:  Perché in Italia è cosí difficile capire quello che succede in Catalogna?

EMB: Per la nostra stessa storia. La parola “nazionalismo”, in Italia, si relaziona con il fascismo ed ha connotazioni negative. La parola “secessionismo” la adoperano quelli della Lega Nord, un partito politico xenofobo molto di destra che si è inventato una nazione fittizia, la Padania, senza nessun fondamento storico, che non si può comparare in nessun modo con la Catalogna, che indiscutibilmente è una nazione.

(foto: lecodesitges.cat)

dimecres, 25 de setembre del 2013

Il terrone catalanista


12 settembre 2013

Manca poco alle 17.14. A quel commovente rintocco di campane che qualcuno dubitava ci sarebbe stato, colonna sonora dellunirsi delle mani di più di un milione e mezzo di persone. I miei principali stati danimo erano ammirazione e commozione; subito dopo la rabbia, per essere costretto a seguire tutto davanti a un monitor, attraverso lo streaming balbuziente di TV3.
Mi distrae il tintinnio dellipad. Una mail. Penso allennesima piulada degli amici che mi raccontano lemozione di ciò che in quel momento stanno contribuendo a costruire.
No. E un caro amico, da Napoli. Il testo del messaggio è laconico. Guarda un po qua... :) che ti dicevo?; e poi i link a Repubblica e al Corriere, con le foto dei leghisti che mettono in bella mostra le senyeras stampate sulle loro magliette.
Mentre i giornali di tutto il mondo raccontano quello che è accaduto e accade in Catalunya, i maggiori quotidiani italiani (sic!), con le due righe di una didascalia di una foto, si mostrano interessati solo a questo elemento di pseudofolklore ahimè tutto nostrano. Il mio umore cambia. E peggiora ancora, quando il sito di Internazionale dedica alla Via catalana soltanto la traduzione di un articolo del quotidiano spagnolo El Mundo, dove i catalani vengono definiti frustrati, ricattatori, traditori.
Dimentico tutto solo grazie allimmagine dellorologio dalinià di Figueres (17.14!) e al suono delle campane. E poi dopo, mano a mano che dalla mia Catalunya virtuale si manifestano nette prese di distanza dalla simpatica trovata dei parlamentari leghisti.
Non sono un indipendentista catalano e forse avrebbe davvero poco senso, per un italiano, esserlo. Sono affascinato da quello che accade e mi muovo (leggo, navigo, parlo, scrivo) alla ricerca di chiavi di lettura per capire. Di una cosa, però, sono certo: Catalonia is not Padania. Spero che i catalani abbiano la stessa consapevolezza: la Lega è quello che, in ambito linguistico, verrebbe qualificato come fals amic.
Non è una questione (solo) di lingua, storia, cultura, tradizione. Il decadimento italiano è ben esemplificato proprio dallascesa, negli ultimi 20 anni, dellincultura e dalla rozzezza di un partito che non ha avuto esitazione a barattare la Padania (che non esiste) con qualche posto nel Governo statale, in compagnia della destra berlusconiana e post-fascista.

Non ho mai visto o letto di nazionalisti che, in nome della Catalunya libera, lanciano banane a una donna di colore, magari dopo che un loro importante esponente (facciamo, proprio per esagerare, un ex ministro del Governo statale?) lha definita pubblicamente orango. Né ho mai visto o sentito di camice giallorosse organizzate in ronde, dedite alla simpatica tradizione padana della caccia allimmigrato (una specie di sardana o di castellers, per intenderci).
Lunica ronda che mi viene oggi in mente è quella dei fascisti che, fatta irruzione nella sede della rappresentanza del Governo catalano a Madrid, hanno interrotto con la violenza le celebrazioni della Diada. Ecco, in quel caso sì, viene voglia di stare, per partito preso, sulla sponda opposta rispetto a quelle brutte facce. Al loro cospetto, mi sono sentito, profondamente e orgogliosamente, catalano.
Ieri, in quellinterminabile stringersi di mani, un politologo spagnolo, Ramón Cotarelo, ha tuittato: aunque pueda parecer un absurdo, los catalanes son la esperanza de España. Dopo quel messaggio, anche io, terrone napoletano che naviga a vista nel degrado, ho  maturato una speranza: riconquistateci, catalani! Con la vostra passione, il vostro civismo, la vostra determinazione.
A conquistare me, per ora, ci siete già riusciti.