Nell'articolo precedente abbiamo citato parte dell'editoriale del Centre d'Estudis Jordi Pujol del 23 ottobre 2013, particolarmente significativa rispetto ai nostri valori.
Visto l'interesse dimostrato dai nostri lettori, abbiamo tradotto tutto l'articolo.
Visto l'interesse dimostrato dai nostri lettori, abbiamo tradotto tutto l'articolo.
L’obiettivo di questo editoriale non è ripercorrere
l’evoluzione che ha portato dalle posizioni degli anni Sessanta e Settanta, e
anche Ottanta e Novanta – dopo la conquista di democrazia e autonomia – a
quelle odierne. Prima la meta cui si guardava era la costruzione di uno Stato
spagnolo democratico, socialmente avanzato e parte della dimensione europea.
Sul piano economico e sociale era necessario compiere uno sforzo di
solidarietà, anche territoriale. Infine – aspetto non secondario, anzi
condizione imprescindibile per il buon esito del progetto – si doveva offrire una
struttura adeguata al pluralismo che giustizia ed efficienza imponevano ad uno
Stato plurinazionale (ovvero costituito da diverse nazionalità, per dirlo con
le parole della Costituzione).
Per il raggiungimento di questi obiettivi risultava
imprescindibile un solido impegno tra tutte le componenti dello Stato, tra
tutti i settori ideologici e tra le diverse realtà nazionali (o nazionalità)
che lo compongono tra cui, ovviamente, la Catalogna.
Questo disegno e il relativo impegno collettivo hanno
retto, approssimativamente, per venticinque anni, tra ostacoli e tensioni.
Nell’insieme, però, ci si muoveva tutti nella medesima direzione. Con risultati
positivi per tutto lo Stato sul piano politico, sociale ed economico.
Progredendo sul terreno della solidarietà e pervenendo, allo stesso tempo, ad
un maggiore riconoscimento delle differenze, tra cui quello della Catalogna, di
particolare peso e significato.
Oggi non è più così: si parla di ponti tagliati e di
scontro di treni. Le prospettive sono molto preoccupanti e si ha la sensazione
di un processo di accelerazione verso questo scontro.
Ciò spiega perché stiano emergendo proposte definite
come “terza via”. Proposte che però, in questo momento, sembrano difficilmente
percorribili. Da parte catalana, infatti, ci sono molto scetticismo e poca
fiducia. Da parte dello Stato, fatto ancor più grave, si registra un totale
rifiuto del dialogo. Se oggi parliamo di tali soluzioni, dunque, non è per
discutere delle loro possibilità di successo ma soltanto per sottolineare la
buona volontà, il desiderio di trovare punti di convergenza o la semplice
preoccupazione delle persone ed entità che le hanno portate avanti. Persone ed
entità che però mostrano anche una visione parziale delle rivendicazioni
catalane e delle loro radici profonde, soprattutto rispetto a un tema che la
Catalogna considera essenziale: la lingua.
Tra coloro che parlano di terza via – con l’eccezione
di Duran i Lleida tra i catalani e senza eccezione alcuna fuori della Catalogna
– nessuno tiene conto del fatto che la sentenza del Tribunale costituzionale e
la legge Wert (che segna un arretramento notevole del catalano nella scuola)
rappresentano ostacoli insormontabili per recuperare un progetto condiviso di
Stato e società.
Già negli anni Novanta si corsero rischi analoghi a
quelli che registriamo oggi. Riportiamo di seguito alcuni scritti del 2007 che
lo ricordano:
• «Per quanto concerne la lingua catalana, un ricorso contro l’immersione
linguistica presentato al Tribunale costituzionale si è risolto positivamente
nel 1994. Se in quell’occasione la sentenza fosse stata diversa, si sarebbe
messo in pericolo uno dei pilastri della nostra politica di difesa del catalano
e di integrazione degli immigrati. Occorre ricordare che in quella fase, in
Spagna, non era in atto una campagna contro il catalano come quella attuale, o
almeno aveva una minore intensità; e che il Tribunale costituzionale,
presieduto da Francisco Tomás y Valiente, godeva di un prestigio, di una
libertà e di una sensibilità che oggi non ha».
• «E’ opportuno un riferimento all’atteggiamento e alla sensibilità assunti
in quella fase dal Tribunale costituzionale e dal suo presidente in relazione
al catalano. Tomás y Valiente, che allora ricopriva la carica, affermava quanto
segue: “Sono consapevole che la questione di maggior rilievo che oggi il
Tribunale ha tra le mani concerne la lingua della Catalogna”. E aggiungeva:
“Qualcuno lo nega e considera moltò più preoccupante il ricorso sulla
espropriazione da parte del Governo statale delle imprese di Rumasa. Io
rispondo che, sempre e dovunque, può succedere che un giudice costituzionale si
pronunci a favore di una impresa e contro il Governo senza che accada niente.
Diversamente, il catalano ha una fondamentale importanza non solo per la
politica di ogni giorno ma anche per la struttura dello Stato e il concetto
stesso di Spagna”».
Che differenza tra questa impostazione e la
inconsistenza giuridica e la politicizzazione di bassa lega che hanno
caratterizzato la vicenda del ricorso contro l’Estatut de Catalunya del 2006!
Il presidente Tomás y Valiente aveva ben chiaro che la
questione della Catalogna assumeva - e assume tuttora - una valenza identitaria
molto importante, legata ad una coscienza di Paese e di personalità collettiva
propria, in relazione alle quali hanno un peso decisivo il sentimento e, ancora
di più, il fatto culturale e la lingua. La nazione catalana non ha base etnica,
e non la vuole nemmeno. La Catalogna è e vuole essere, invece, una nazione per
lingua e cultura. E per capacità di convivenza.
La politica linguistica, culturale e sociale della
Catalogna durante gli ultimi quaranta anni si è identificata in questi
principi. A partire da formazioni politiche e ideologiche non sempre
coincidenti, ma fondamentalmente d’accordo sugli argomenti di stato sociale,
convivenza e lingua, con l’obiettivo che in Catalogna ci fosse il massimo
possibile di coesione sociale
Lo Stato sociale può essere indebolito attraverso la
perdita di competenze da parte della Generalitat e attraverso l’asfissia
finanziaria. Anche per quanto riguarda la lingua vi può essere una legislazione
che ne freni, in maniera determinante, l’insegnamento, l’uso e la capacità di
essere un fattore d’integrazione già a partire dalla scuola. E’ quello a cui
aspirano la legge Wert e una idea di Spagna, oggi particolarmente forte, a cui
dà fastidio la piena affermazione della Catalogna come popolo e comunità di
lingua e cultura. Questo non è tollerabile. Non è tollerabile che si ritenga
sia giunto il momento, come si dice, di «dare un giro di vite» affinché «nel
giro di due generazioni la questione della
lingua e della autonomia risulti definitivamente chiusa». Di questo parlavamo
nell’editoriale «Habéis perdido y no os
necesitamos».
La questione linguistica in generale e, più specificamente, quello della immersione – che, detto per inciso, non è mai stato un problema sociale e di convivenza in Catalogna, anzi al contrario – devono essere considerati di massima importanza. Perché la Catalogna non è né vuole essere una nazione etnica, ma vuole continuare a essere una nazione di lingua, cultura e convivenza.
La questione linguistica in generale e, più specificamente, quello della immersione – che, detto per inciso, non è mai stato un problema sociale e di convivenza in Catalogna, anzi al contrario – devono essere considerati di massima importanza. Perché la Catalogna non è né vuole essere una nazione etnica, ma vuole continuare a essere una nazione di lingua, cultura e convivenza.
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