12 settembre 2013
Manca poco alle 17.14. A
quel commovente rintocco di campane che qualcuno dubitava ci sarebbe stato,
colonna sonora dell’unirsi delle mani di più di un milione e mezzo di
persone. I miei principali stati d’animo erano ammirazione e commozione; subito dopo la
rabbia, per essere costretto a seguire tutto davanti a un monitor, attraverso
lo streaming balbuziente di TV3.
Mi distrae il tintinnio
dell’ipad. Una mail. Penso all’ennesima piulada degli amici che mi raccontano l’emozione
di ciò che in quel momento stanno contribuendo a costruire.
No. E’ un caro amico, da Napoli.
Il testo del messaggio è laconico. “Guarda un po’ qua... :) che ti dicevo?”; e poi i link a Repubblica
e al Corriere, con le foto dei leghisti che mettono in bella mostra le senyeras stampate sulle loro magliette.
Mentre i giornali di tutto
il mondo raccontano quello che è accaduto e accade in Catalunya, i maggiori quotidiani
italiani (sic!), con le due righe di una didascalia di una foto, si mostrano interessati
solo a questo elemento di pseudofolklore – ahimè – tutto nostrano. Il mio umore cambia. E
peggiora ancora, quando il sito di Internazionale
dedica alla Via catalana soltanto la
traduzione di un articolo del quotidiano spagnolo El Mundo, dove i catalani
vengono definiti “frustrati”, “ricattatori”, “traditori”.
Dimentico tutto solo grazie
all’immagine dell’orologio dalinià di Figueres (17.14!) e al suono delle campane. E poi
dopo, mano a mano che dalla mia
Catalunya virtuale si manifestano nette prese di distanza dalla simpatica
trovata dei parlamentari leghisti.
Non sono un indipendentista
catalano e forse avrebbe davvero poco senso, per un italiano, esserlo. Sono
affascinato da quello che accade e mi muovo (leggo, navigo, parlo, scrivo) alla
ricerca di chiavi di lettura per capire. Di una cosa, però, sono certo: Catalonia is not Padania. Spero che i
catalani abbiano la stessa consapevolezza: la Lega è quello che, in ambito
linguistico, verrebbe qualificato come fals
amic.
Non è una questione (solo) di
lingua, storia, cultura, tradizione. Il decadimento italiano è ben
esemplificato proprio dall’ascesa, negli ultimi 20 anni, dell’incultura e dalla rozzezza
di un partito che non ha avuto esitazione a barattare la Padania (che non
esiste) con qualche posto nel Governo statale, in compagnia della destra
berlusconiana e post-fascista.
Non ho mai visto o letto di
nazionalisti che, in nome della Catalunya libera, lanciano banane a una donna
di colore, magari dopo che un loro importante esponente (facciamo, proprio per
esagerare, un ex ministro del Governo statale?)
l’ha definita pubblicamente “orango”. Né ho mai visto o sentito di
camice giallorosse organizzate in
ronde, dedite alla simpatica tradizione padana della caccia all’immigrato
(una specie di sardana o di castellers, per intenderci).
L’unica ronda che mi viene
oggi in mente è quella dei fascisti che, fatta irruzione nella sede
della rappresentanza del Governo catalano a Madrid, hanno interrotto con la
violenza le celebrazioni della Diada.
Ecco, in quel caso sì, viene voglia di stare, per partito preso, sulla sponda
opposta rispetto a quelle brutte facce. Al loro cospetto, mi sono sentito,
profondamente e orgogliosamente, catalano.
Ieri, in quell’interminabile
stringersi di mani, un politologo spagnolo, Ramón Cotarelo, ha tuittato: “aunque
pueda parecer un absurdo, los catalanes son la esperanza de España”. Dopo
quel messaggio, anche io, terrone napoletano che naviga a vista nel degrado,
ho maturato una speranza:
riconquistateci, catalani! Con la vostra passione, il vostro civismo, la vostra
determinazione.
A conquistare me, per ora,
ci siete già riusciti.